La Moda della Belle Epoque (1900-1914)
ANALISI SOCIALE E DEL
COSTUME
Il primo decennio del secolo (Novecento) passato alla storia
come belle époque, fu un periodo di
grande fervore, un’età risplendente che coincise con il momento culminante
dell’ art nouveau (noto in Italia anche
come stile Liberty, un movimento artistico diffusosi in Europa e negli Stati Uniti a cavallo
tra ‘800 e ‘900). Prima che gli sconvolgimenti politici e la guerra
travolgessero tutto, si attraversò un momento di ottimismo, di spensieratezza,
di divertimenti. L’Esposizione Universale tenutasi a Parigi nel 1900 mise in
mostra le mode e le invenzioni più recenti, sancendo i progressi della scienza
e dell’industria. Nelle città circolavano già alcune automobili: nel 1908
l’americano Henry Ford produsse il “Modello T” che aveva una forma ed un colore
standard, il nero, venduta a prezzi accessibili. Le grandi città cominciarono
ad assumere l’aspetto di metropoli, con una vita frenetica e dinamica, con
spostamenti più rapidi dati dall’espandersi della rete tramviaria. Ispirati
alle forme libere ed alle curve continue, ondeggianti e ritmiche dell’ art nouveau, i grandi couturiers
dell’epoca come Worth, impiegavano metri e metri di stoffe di lusso per i loro
vestiti ed abiti eleganti, che si accompagnavano a decoratissimi cappelli, ampi
nelle tese e provvisti di piume e nastri. Il cinema era ancora novità, ma
Hollywood cominciava ad emergere come
capitale mondiale della nuova arte. Come pure la fotografia diventava un modo
per trasmettere l’abbigliamento, la moda, i segni distintivi di uno status
symbol ovvero ogni segno esteriore che denota la condizione economica, sociale
e culturale di una persona. Nel 1909 la compagnia di ballo russa dei Balletts Russes , inaugurò la sua prima
stagione a Parigi. La compagnia mise in scena, tra le altre opere Shèhèrazade,
quasi sempre con le coreografie dal contenuto romantico o orientale. L’arrivo
dei Balletti Russi fu provocatorio e l’impatto fu fortissimo sulla moda e in
modo particolare sul sarto parigino Paul Poiret: con lui nacque una nuova
immagine della donna che, priva di busto e corsetto, poté indossare tuniche
trasparenti, abiti di foggia orientale che richiamavano i kaftani e i sari
indiani.
L’azienda Grandi magazzini italiani E. & A. Mele viene
fondata a Napoli nel 1889 dai fratelli Emiddio e Alfonso Mele, che si ispirano
ai grandi magazzini Lafayette e Le Bon Marché conosciuti nei corso dei viaggi
fatti a Parigi. Rimasti attratti dalla novità ed efficacia della nuova formula
commerciale e distributiva, i Mele decidono di imitarla. I negozi dei
magazzini napoletani sorgono al piano terra e al primo piano del Palazzo della
borghesia, su un’area di circa 2.000 metri quadrati. Gli articoli messi in
vendita sono tantissimi, delle più svariate specie merceologiche; in
particolare, sono destinati all’abbigliamento maschile e femminile. I prodotti
vengono distribuiti anche attraverso la vendita per corrispondenza, in Italia e
in Europa.
Sin dalla nascita dei Grandi magazzini italiani, i fratelli Mele puntano sul costante utilizzo della propaganda pubblicitaria. Famosi sono i manifesti da loro commissionati. I Grandi magazzini italiani sono accolti immediatamente con grande entusiasmo e acquisiscono ben presto fama e prestigio. Dopo la scomparsa dei due fondatori, l’impresa commerciale imbocca la strada di un progressivo declino fino alla cessazione dell’attività, nel 1932. (Nel manifesto si nota il cappello a tesa larga con piume e nastri, alto colletto in stoffa con decorazione a “colpa di frusta” tratto tipico dell’art nouveau).
Sin dalla nascita dei Grandi magazzini italiani, i fratelli Mele puntano sul costante utilizzo della propaganda pubblicitaria. Famosi sono i manifesti da loro commissionati. I Grandi magazzini italiani sono accolti immediatamente con grande entusiasmo e acquisiscono ben presto fama e prestigio. Dopo la scomparsa dei due fondatori, l’impresa commerciale imbocca la strada di un progressivo declino fino alla cessazione dell’attività, nel 1932. (Nel manifesto si nota il cappello a tesa larga con piume e nastri, alto colletto in stoffa con decorazione a “colpa di frusta” tratto tipico dell’art nouveau).
La silhouette femminile si modificò in ragione del leggero
abbassamento del punto vita e con l’uso di un nuovo tipo di busto che
schiacciava il ventre e i fianchi, spingendo indietro il bacino e dunque
arcuando il corpo posteriormente. In questo modo si passò dal vitino di vespa
alla cosiddetta “linea a S” per il nuovo tipo di sinuosità che il corpo
femminile assunse nella costrizione del busto. La linea serpenti nata veniva
proposta dalla moda parigina dalla
maison di Jeanne Paquin, (prima couturier donna) e soprattutto dalla maison
Worth, nella quale ricordiamo, Gaston e Jean-Philippe raccolsero l’eredità. Il
tailleur adatto alla linea S, fu usato come abito da mattino, con giacche
lunghe e maniche strette sugli avambracci, ma larghe alle spalle: erano le
maniche a gigot, che partivano dalle spalle con un ampio sbuffo e correvano poi
aderenti al gomito, fino alla mano. Le gonne erano morbide sui fianchi, tutte
lunghe e svasate a campana. Le camicette chiare e spesso ornate di pizzi sul
davanti, con colletti alti, aderenti in pizzo. Per il pomeriggio, i vestiti
erano impreziositi da inserti di merletto, balze di tulle e volants, mentre per
la sera gli abiti si fecero molto sfarzosi: scollati, senza maniche, con lo
strascico e riccamente guarniti di paillettes e perline. Per il giorno venivano
impiegati tessuti di lino, velluto e lana, i colori preferiti erano le tonalità
pastello scure o pallide come il rosa, il blu e il malva. Pe la sera si
impiegavano seta e pizzo, mussola e chiffon. I cappotti seguivano la linea del
vestito ed erano rifiniti con bottoni dorati o con alamari di passamaneria, in
base alle stagioni i soprabiti potevano essere bordati o foderati di pelliccia.
Tra gli accessori troviamo gli ampi cappelli dalle
fantasiose guarnizioni, inclinati leggermente sul davanti per conferire
maggiore equilibrio alla silhouette, in contrasto alla sporgenza posteriore
dell’abito. Le scarpe o gli stivaletti erano appuntiti e avevano un tacco a
rocchetto leggermente arcuato. Di rigore le calze di seta e i guanti aderenti e
lunghi tanto da coprire l’intero braccio per gli abiti da sera scollati. In
voga gli ombrellini, ventagli ma tra gli accessori si fece sempre più frequente
l’uso delle borsette: le tasche infatti avrebbero deformato la linea della
gonna. Le capigliature si fecero voluminose: si prediligevano ondulate, con
l’inserimento di ciocche posticce, raccolte morbidamente. I capelli venivano
composti in uno chignon in cima al capo. Si faceva largo uso di pettinini e
lunghi spilloni, per tenere fermi i capelli, ornati a seconda delle stagioni,
di piume o di fiori. Il look del decennio imponeva una pelle diafana e
delicata: le creme o i fluidi sbiancanti erano indispensabili come la cipria di
riso. Il trucco pesante iniziò a diffondersi anche per il make-up da giorno e
per le signore borghesi che azzardavano l’ombretto, la matita per sopracciglia
o si coloravano i capelli con l’hennè.
Dopo il 1905, la linea S venne gradualmente abbandonata e si fece avanti una certa semplificazione della moda: tendenza alla verticalità, forme flessuose, quasi tubolari che lasciavano supporre corpi snelli e agili. La tendenza alla semplicità è testimoniata dalla grande diffusione del tailleur(come vediamo in figura). Più tardi apparvero i vestiti a kimono, con corpetti tagliati insieme alle maniche e senza cuciture alla spalle, che divennero di gran moda verso il 1914.
La fama di Poiret gli derivò dall’aver creato una linea di abbigliamento totalmente nuova. Egli si battè dal suo punto di vista per far risaltare la naturale bellezza del corpo femminile, abolendo definitivamente il corsetto. Poiret nel 1900 fu assunto come stilista presso la casa Worth, dalla quale fu licenziato per divergenze di tipo stilistico, si permise infatti di disegnare il primo lineare e spoglio tailleur che, abbinato ad un mantello di sapore orientale, fece scandalo. Nel 1904 Poiret aprì la sua prima maison ed iniziò a proporre abiti dalla linea più naturale e sciolta, privi di decorazione; gli abiti creati da Paul Poiret avevano le spalle e non la vita, come unico punto di appoggio da cui far fluire il tessuto, lasciando a chi li indossava libertà di movimento. Nel 1905 realizzò il mantello-kimono decorato con ricami a “cineseria”, rinominato “rèvèrend” nelle riviste di moda, in tessuto bordeaux, un omaggio alla voga del giapponesismo che in quegli anni aveva invaso Parigi e che influenzava anche le arti visive. , adoperò tagli kimono per cappotti e giacche, sostituì la moda sproporzionata dei grandi cappelli con il turbante drappeggiato.I modelli chiave della sua collezione furono l’abito “Josèphine” di esplicita derivazione stile impero. Accanto allo sviluppo del Directoire Revival, Poiret non trascurò l’altra sua grande passione, quella dell’orientalismo dal quale trasse ispirazione per le sue idee creative, come l’abito “Sorbet”, una tunica paralume in satin bianco e nero e in chiffon rosa con ricami di palline vitree. L’orlo rifinito in pelliccia, è sostenuto da un filo di ferro, conferendo quell’effetto a paralume introdotto dopo la festa persiana del 1911 in cui Poiret si abbigliò come un principe persiano e la moglie, l’elegante Denise, come una maliziosa odalisca ebbe il compito di presentare l’ultima creazione del grande sarto: morbidi pantaloni da harem in chiffon, stretti in vita e alle caviglie, completato da un giubetto di taglio orientale, questa moda dei pantaloni suscitò entusiasmo tra le signore parigine. Il modello femminile di Poiret, pur nella rivoluzione che apportò alla moda, anche con azioni che suscitarono scandalo, non è la donna emancipata, ma ancora la femme fatale ottocentesca con le caratteristiche dell’odalisca. Poiret era e rimase un aristocratico della moda, la sua clientela erano le signore dell’aristocrazia, le cocottes più in vista, le grandi attrici.
In Italia e precisamente a Venezia, non a caso scelta come patria di adozione, si colloca l’opera artistica dello spagnolo Mariano Fortuny y Madrazo che ricollegandosi ai concetti innovatori di libertà del vestire, contemporaneamente lanciati in Francia da Poiret, recuperò l’arte classica delle purissime linee, legando il suo nome al delphos, una personalissima rivisitazione e riproposizione del chitone greco. E’ indubbiamente la scultura greca quella a cui Fortuny fece riferimento per quei modelli di abiti plissettati. Tubini cilindrici formati da quattro, cinque teli, tagliati a dritto filo, cuciti tra loro in lunghezza. I modelli a tunica erano completati talvolta da cinture, Kolpos, o da cordoncini a treccia, perline di Murano per sottolineare le spalle. I tessuti rasi e taffetas, rendevano i colori brillanti ed esaltavano le numerose gamme cromatiche in cui vennero prodotti: dai grigi ai beige, ai rosa fino ai rosso corallo, dai blu, ai verdi e ai viola. Il paragone con Poiret è inevitabile, la differenza sostanziale tra i due creatori consiste nel fatto che mentre Poiret agiva all’interno del mondo della moda rinnovando annualmente le sue collezioni, Fortuny rifiutava questa logica. Egli riteneva che un abito risultasse dalla simbiosi tra forma e materia, da qui il rifiuto di sottostare alle esigenze della moda contemporanea.
Commenti
Posta un commento